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Il signor G
Il 21 ottobre del 1970, in un teatro tenda itinerante gestito dal Piccolo Teatro di Milano, debuttava a Seregno, un comune dell’hinterland milanese, Il signor G, il primo spettacolo di monologhi e canzoni con il quale Giorgio Gaber tentava il grande salto dalla musica leggera al teatro, inaugurando di fatto (anche se ancora non si chiamava così) un nuovo genere di spettacolo, il Teatro Canzone. Si trattava di una serie di monologhi teatrali intervallati l’uno dall’altro da una serie di canzoni eseguite dal vivo, che integravano e ampliavano di fatto la scrittura drammaturgica dello spettacolo.
Il Piccolo Teatro di Milano operava una politica di decentramento culturale, portando gli spettacoli di cui curava la produzione nei quartieri periferici della città e nei comuni limitrofi, tanto è vero che Il signor G arrivò a Milano soltanto il 13 gennaio del 1971. Il doppio album che raccoglieva i monologhi e le canzoni dello spettacolo (e che qui presentiamo integralmente) venne registrato dal vivo ma in sala d’incisione, allo studio Regson di Milano, con un pubblico ad inviti che reagiva molto calorosamente (e positivamente) al nuovo corso che Gaber aveva voluto dare alla sua carriera e al quale pensava ormai da molto tempo.
Da una parte il crescente senso di insoddisfazione del suo essere un artista calato negli ingranaggi discografici (il Festival di Sanremo, Canzonissima, il Cantagiro, il Festival di Napoli) e dall’altra le sue ripetute, e felici, esperienze di conduttore televisivo di programmi apprezzati e di successo, gli avevano fatto intravedere altri orizzonti. Si era reso conto, e ne era pienamente convinto, di poter esprimere al meglio il suo talento di interprete e di intrattenitore in un’altra forma di spettacolo, che tenesse conto del suo ruolo di cantante ma che gli lasciasse la libertà di cantare e di parlare di ciò che gli stava più a cuore.
Non a caso Il signor G ospitava molte canzoni del suo repertorio degli anni Sessanta, da Le nostre serate a Suona chitarra, da Eppure sembra un uomo a Com’è bella la città, e questo filo rosso che lo legava al passato funzionò piuttosto bene nell’intento di non disorientare troppo il pubblico che sarebbe andato ad ascoltarlo e che sicuramente a quel repertorio era affezionato. Lo spettacolo e il disco erano ufficialmente firmati dal solo Gaber, ma in realtà in tutte le nuove canzoni (e anche in alcune delle vecchie) e nei monologhi c’era la mano di Sandro Luporini, un pittore viareggino che Gaber aveva conosciuto diversi anni prima e con il quale firmerà da quel momento in poi tutti gli spettacoli e i dischi successivi della sua lunga e gratificante carriera.