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Saluti a Zena
La canzone dialettale genovese ha conosciuto un’improvvisa popolarità con Fabrizio De André, a partire da Creuza de ma (1984), un album interamente cantato in dialetto. Questa raccolta invita a scoprire un repertorio antecedente, che va dalle melodie anonime della tradizione agli originali esperimenti “brasiliani” intrapresi nei primi anni Sessanta dalla coppia di autori formata da Giorgio Calabrese e Gian Franco Reverberi e interpreti d.o.c. come Natalino Otto e Bruno Lauzi. Nel mezzo spicca la produzione di Mario Cappello, la voce della Genova fra le due guerre, autore dell’inno cittadino Ma se ghe penso.
La canzone - l’unica in genovese ad aver fatto il salto nel repertorio nazionale – parla del capoluogo ligure dal punto di vista di chi l’ha lasciata per cercar fortuna in America e il tema dell’emigrazione ritorna più volte (Arrio, Saluta Zena), spesso presentato con senso pratico e ironia anziché attraverso il sentimentalismo delle grandi canzoni napoletane: l’ emigrante che arriva dopo tanti anni a rivedere la sua città e la sua innamorata le manda a dire "prepara dui raiô che se mangemu..." (prepara due ravioli che ce li mangiamo). La lacrimuccia sgorga però quando oggetto di nostalgia sono i caruggi (vicoli) del centro storico, agognati da lontano (Cansôn da Cheullia – la Casetta de Trastevere genovese) o le veggie carussette (vecchie carrozzelle) trainate da cavalli, oramai scomparse.
Non deve meravigliare che molte di queste canzoni si muovano a ritmo di tango, samba e bossa nova: sono il risultato di scambi assidui che avvenivano sui transatlantici in rotta verso l’America del Sud, palestre per un ventenne Reverberi, vibrafonista a bordo dell’Olimpia, e un 16enne Natalino, batterista sul Conte di Savoia. Molte delle canzoni sono interpretate dalle corali che ancora oggi in alcune osterie, per lo più di periferia, mantengono vivo una forma di canto polivocale dalle origini molto antiche, imparentato con il bei toscano, i tenores e le tasgie sarde. Si tratta del trallallero, tipico della Liguria. Non manca la comica finale, con una scenetta di Giuseppe Marzari, popolarissimo attore teatrale (e cinematografico) genovese che fra gli anni i Trenta e i Sessanta incise centinaia di 78 giri.